Quando si parla di aborigeni e balene quasi sempre ci si riferisce ai permessi per la caccia concessa a varie tribu in deroga alla moratoria internazionale. Questa volta invece la cultura tradizionale dei nativi americani viene invocata per tutt’altro scopo: per liberare un’orca in cattività. Ma andiamo con ordine.
Nell’agosto del 1970 un’intera flottiglia di barche, guidate dall’alto da un aereo, saltavano furiosamente sulle onde, gli uomini a bordo con l’adrenalina alle stelle.
Le orche del Pudget Sound, sulla costa del Pacifico, sapevano esattamente cosa le stava aspettando e le mamme si allontanarono con i piccoli protetti al centro del gruppo. Ma fu inutile: le barche, piombando sulle orche e le accerchiarono, stesero una rete chiudendo ogni via di fuga.
Fu il panico, ma ciononostante i grossi delfini bianchi e neri cercavano di restare uniti e di tenersi i cuccioli vicini. Avevano già vissuto quell’esperienza: era un piccolo che gli inseguitori volevano. A nulla valsero gli sforzi delle mamme. Gli umani ne individuarono uno, lo catturarono e lo issarono su una specie di barella per poi appoggiarlo sul fondo della barca.
Ma mentre i cacciatori di orche si apprestavano a sistemare l’attrezzatura e a riprendere la corsa per tornare in porto con il loro bottino che, ceduto a un delfinario, valeva decine di migliaia di dollari, notarono qualcosa che non si erano aspettati. Era passata quasi un’ora, ma gli altri membri del branco, scampati alla caccia, erano ancora lì. Nella violenta battuta , cinque orche erano affogate; quattro erano dei piccoli. Ma i superstiti, pur liberati dalla rete non si erano allontanati. Emettevano dei suoni, girando freneticamente intorno alla barca. Non se ne andavano, pur sapendo che anche loro rischiavano di essere catturati. La famiglia non voleva abbandonare il piccolo e continuava a chiamarlo. E la giovane orca, due anni appena, fuori dall’acqua, imbracata e bloccata sulla barca in una posizione innaturale, incapace di muoversi, rispondeva con quelle che chiunque avrebbe interpretato come grida disperate alla mamma.
Quel piccolo non vedrà mai più la sua famiglia; Lolita, come la chiameranno al Miami Seaquarium, vive da cinquant’anni in una vasca di cemento. (da: BALENE SALVATECI!” Ed Mursia)
Raynell Morris, una signora della “nazione” dei nativi Lummi, non è la prima a chiedere la liberazione dell’orca Lolita, ma la sua idea su come ottenerlo è senz’altro la più originale. In USA c’è una legge che potrebbe essere la chiave di volta, anche se non era certo concepita pensando ai cetacei. Si tratta del Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA) che prevede la restituzione di oggetti di importanza culturale ai nativi americani a titolo di risarcimento per i soprusi storici subiti.
Lolita proviene da una delle tre famiglie di oche (pod) che costituiscono le “residenti meridionali”, per inciso oggi gravemente minacciate, che vivono lungo le coste dello Stato di Washington, zona che coincide con gli antichi territori del Lummi. Per questi nativi, i mammiferi marini, qwe’lhol’mechen, considerati i loro corrispettivi in mare, sono sacri.
L’idea di Raynell Morris è semplice: appellarsi al NAGPRA per imporre al Miami Seaquarium la restituzione dell’orca e la rimessa in libertà. Se la spunterà, sarebbe la prima volta che questo principio viene applicato a un essere vivente.
C’è da dire che far riadattare un’orca alla vita in mare dopo 50 anni di cattività è un’impresa dalle prospettive incerte. L’unico precedente, la liberazione dell’orca Keiko (“Free Willy”) nel nord-Atlantico, non ha funzionato. Ma chissà, forse il pod di Lolita, con una “cultura” completamente diversa, potrebbe riconoscerla e riaccoglierla. Nonostante tutto, forse glielo dobbiamo.
Maddalena Jahoda
Foto di Jacqueline Schmid da Pixabay