C’è una linea di pensiero che vuole che i cetacei (e molte altre specie) siano considerate non cose ma persone. Persone non-umane per la precisione. Il Non-human Rights Project è una organizzazione statunitense per i diritti civili degli animali e tra i suoi obiettivi, un cambiamento dello stato legale di elefanti, grandi scimmie, balene e delfini da semplici oggetti (quindi senza alcun diritto) a persone legali con diritti fondamentali come la libertà.
La novità 2024 è che in Polinesia le balene hanno ottenuto lo status di persone giuridiche. Forse un importante precedente!
Un habeas corpus, cioè il diritto all’inviolabilità personale, risolverebbe alla radice, per esempio, la questione dei delfinari; tenere in vasca cetacei esclusivamente per l’intrattenimento umano diventerebbe non solo moralmente ma anche legalmente inaccettabile.
So per certo che tutte le informazioni che mi accingo a scrivere sono sensate e accreditate, eppure spero con tutto il cuore che qualcuno sia in grado di darmi torto.
Curo la pagina
Facebook dell’Istituto Tethys, organizzazione non-profit per la
ricerca e la salvaguardia dei cetacei, di cui faccio parte da oltre
30 anni. Mai come in questi giorni mi scrivono, commentano,
implorano: possibile che non fate niente per Codamozza, la
balenottera comune rimasta con uno spaventoso moncone al posto della
pinna caudale e che da mesi gira per il Mediterraneo,? E’ magra ed
emaciata, probabilmente alla disperata ricerca del krill che sembra
avere difficoltà ad andare a inghiottire in profondità. Conosco
Codamozza fin dal 2005, quando mi apparve, proprio di fianco alla
barca, tirando fuori la coda che già allora era menomata di quasi
tutto un lobo, ma che allora le consentiva evidentemente ancora una
vita normale.
Cosa si può fare?
Ecco le risposte più logiche.
Applicare una
protesi?
E’ stato fatto con
un delfino e, credo, sia stato fatto anche un film. Ma si trattava di
un animale in cattività, quindi un ambiente controllato. Con
Codamozza il problema non è tanto costruire la protesi, mi dicono
che forse è fattibile in 3D, ma come applicargliela?
Bisognerebbe
innanzitutto avere una vasca in grado di ospitare un animale di 20
metri di lunghezza, che oltretutto è abituato a muoversi.
L’alternativa potrebbe essere una zona di mare recintata. Ma anche
ammesso di disporre di una struttura o zona adatta resterebbe il
problema di come portarcela.
Catturare un cetaceo
che può pesare 40-50 tonnellate non è un’impresa da poco: con una
rete rischierebbe di affogare, (i cetacei respirano aria a differenza
dei pesci) per non parlare dello stress della cattura, che spesso
uccide anche animali al confronto più “gestibili” come i
delfini.
Qualcuno propone di
tentare di applicare una protesi avvicinandola in mare. Ma le
balenottere sono “animali da corsa” e anche senza caudale
Codamozza percorre qualcosa come 100 km al giorno. Altri, di farle
un’anestesia “al volo” e operarla: i cetacei non possono
essere anestetizzati perché hanno la respirazione volontaria, il che
vuol dire che a differenza della nostra specie smetterebbero di
respirare.
Darle da mangiare?
Codamozza è
spaventosamente magra, o perché non riesce ad andare in profondità
dove in genere cattura il krill, e/o perché ha un consumo
energentico molto elevato per lo sforzo di nuotare senza coda, che è
l’organo propulsore. Apparentemente infatti si aiuta con le pettorali
e con un movimento di tutto il corpo. L’idea di darle da mangiare
forse appare leggermente più proponibile. Nelle Filippine c’è un
posto dove una decina di squali balena, che filtrano plancton in
maniera molto simile ai misticeti, vengono foraggiati perché i
turisti possano poi nuotare con loro. Codamozza dovrebbe mangiare da
1,5 a 2 tonnellate al giorno di krill (minuscoli gamberetti della
specie Meganyctiphanes norvegica). Forse si adatterebbe a
mangiarli morti, o glieli si potrebbero fornire vivi, e probabilmente
li accetterebbe anche in superficie (in certe zone le balenottere
mangiano anche lì). La difficoltà sarebbe trovare dove sia ogni
giorno, dal momento che finora si è spostata in continuazione. Uno
spiraglio: forse si fermerebbe nel posto in cui le si dà da
mangiare? Questo implicherebbe comunque fornirle una enorme quantità
di cibo per il resto della sua vita.
Questo ci dice il
buon senso, la scienza, e l’esperienza che abbiamo con questi
animali, certo ancora misteriosi per molti aspetti. Ho riportato i
concetti senza alcun cinismo né rassegnazione alla morte del povero
animale di molto degli addetti ai lavori. Anzi, non ho smesso un
attimo di scervellarmi su cosa davvero si potesse fare. Spero ancora
di svegliarmi una notte con improvvisamente un’idea a cui nessuno
aveva pensato o che qualcun altro, non importa chi, se ne esca con
una soluzione fattibile. Se servisse, il krill glielo andrei a
portare a nuoto, di persona.
Intanto Codamozza
naviga anche sui social, tra i commenti fantasiosi, commiserveoli o
indignati dei fan. Facebook me ne propone una gran quantità;
l’algoritmo notoriamente ti mostra quello che crede – spesso a
ragione – che ti interessi. Il risultato è la cosiddetta
echo-chamber. In soldoni: ti sembra che tutto il mondo non parli
d’altro che di questo (nel mio caso Codamozza). La realtà però è
ben diversa: moltissima gente non ha la più pallida idea di cosa
facciamo ai mari, agli animali, all’ambiente, né cosa abbiamo fatto
a Codamozza, quasi sicuramente vittima o di una rete o lenza, o di
una collisione con una nave – e per ben due volte, dal momento che
già più di 20 anni fa aveva una pmenomazione.
Quello che nel mio
piccolo posso fare è raccontare questa storia, raccontarla
raccontarla.
Urlarla.
Con post, articoli,
interviste, libri e magari dipinti. Perché tutti sappiano e non ci
siano più altre Codamozza nei mari.
Oggi la scienza si avvale sempre di più di non-scienziati per raccogliere dati, e a volte analizzarli. Si chiama “citizen science” e può avere le più diverse modalità, dal contare le balene che migrano lungo le coste al classificare nuove stelle, al trascrivere manoscritti. Per la ricerca, spesso a corto di fondi, soprattutto nei campi che hanno hanno grandi interessi economici alle spalle (lo studio dei cetacei è uno di quelli) spesso è un aiuto essenziale, e non serve essere esperti. Si può fare anche da casa e un sito che offre tantissima scelta è zooniverse. https://www.zooniverse.org : dal penguin watch alla scoperta di nuove galassie.
In “Balene salvateci!” se ne parla nel capitolo “Satelliti e videogames”.
… e ha da dirci qualcosa di importante. In un momento in cui tutti ci chiediamo dove andrà a finire il nostro pianeta, e la nostra specie in particolare, guardate questo breve ma efficacissimo video, parte di una serie geniale che si chiama “Nature is speaking” (Parla la natura) . Questo è quello sull’oceano, con la voce di Harrison Ford. E’ quello a cui faccio riferimento nel capitolo “Salviamoci a vicenda” del libro “Balene salvateci!” E’ in inglese, ma si capisce facilmente. In ogni caso, qui una traduzione
Peraltro, non è l’unico della serie: parla anche la natura, parlano i ghiacci, parlano un po’ tutti gli elementi che stiamo bistrattando. E vale la pena di starli a sentire!
Perché le megattere cantano? Qui una bellissima infografica che lo spiega (in inglese). In sintesi: in acqua i suoni viaggiano 4 volte meglio che nell’aria; per contro, la luce penetra solo per pochi metri. Quindi i cetacei utilizzano ampiamente i suoni per comunicare. Le megattere hanno portato questa capacità ai massimi livelli, e si producono in vere e proprie canzoni, con frasi, temi e strofe. E, particolare che forse facciamo fatica a immaginare – non hanno bisogno di espirare per produrre suoni, perché riciclano l’aria che hanno nelle vie aree; ricordiamoci che tutto questo avviene sott’acqua, in apnea!
Chi canta sono i maschi, e si pensa che sia per attirare le
femmine. E sembra che chi canta il motivo più “di moda” sia
considerato più attraente. Sì, perché in ogni regione la hit parade è diversa e
soprattutto cambia col tempo. Le mode si propagano da una regione all’altra e
si evolvono…
Ma al di là di quella che a noi può sembrare una curiosità, cantare è importante per la sopravvivenza di questa specie. Ecco perché l’inquinamento acustico, che tende a coprire anche le frequenze utilizzate dai cetacei, può essere deleterio.
“Di fatto, la bella balenottera che
ammirate durante la gita di whale watching la mattina, nel pomeriggio potrebbe
essere arpionata, squartata e proposta la sera come piatto fresco del giorno.”
Nel capitolo “I nuovi capitani Achab”, su un inaspettato e subdolo ritorno alla anacronistica caccia ai grandi cetacei: per proporla ai tursiti. NON ORDINATELA! Su questa pagina della Whale and Dolphin, la charity britannica per la protezione dei cetacei, tutti i dettagli (in inglese)
“… un video, come quello girato nel golfo di Corinto, dove una femmina di stenella striata gira attorno a un piccolo morto, nella calma irreale di un mare piattissimo e sotto gli occhi umidi di un piccolo gruppo di volontari della ricerca di Dolphin Biology and Conservation.”
Nel capitolo “cetacei e figli” del libro “Balene salvateci!” si parla di come a volte le mamme di delfino (e di orca, vedi sopra) sembrano non riuscire a farsene una ragione della morte del loro piccolo e continuano a portarselo appresso, spingendolo in superficie come per farlo respirare. Qui il video citato, nel golfo di Corinto
Qui l’episodio nella Grecia ionica, documentato da Joan Gonzalvo, dell’Ionian Dolphin Project di Tethys:
“Non è semplicemente circolare ma forma spirali in movimento, create soffio dopo soffio, che compaiono dalle profondità, si avvicinano e si espandono, in perenne trasformazione, come corolle bianche di grandi fiori sull’oceano (cap. satelliti e videogames)…”
Nel capitolo di “Balene salvateci!” sulle nuove tecnologie ho fatto un accenno ai droni, che catturano immagini che un tempo non avremmo nemmeno immaginato. Uno degli spettacoli, tra i tanti, è quando le megattere fanno la loro rete di bolle per intrappolarvi dentro i pesci e poi mangiarseli in un boccone. Viste dall’alto sono ancora più belle…
La triste storie della famiglia di orche che alla fine del 2019 è entrata in Mediterraneo, stazionando nel porto commerciale di Genova Prà, ha tenuto banco su giornali e social. Al momento di andare in stampa con “Balene salvateci!” il cucciolo era morto, una delle femmine era scomparsa, il resto era stato avvistato nello Stretto di Messina. Ecco qui il seguito, aggiornato al marzo 2020.
Questo il
seguito della vicenda: un mese dopo il maschio compare al largo del Libano; è
solo, ma è sicuramente lo stesso, come confermano le foto delle sue chiazze
bianche che permettono di identificarlo. Si tratta di Riptide, come lo avevano
chiamato i ricercatori che per primi lo avevano “catalogato” nella lontana
Islanda.
Pochi
giorni dopo, una brutta sorpresa: un individuo si spiaggia morto nelle
vicinanze; il corpo è troppo decomposto per averne la certezza, e manca la
pinna dorsale, ma è più che probabile che si tratti di una delle femmine.
Riptide è
rimasto solo: ha visto probabilmente tutta la sua famiglia morire, uno ad uno.
Si trova in un mare che non conosce, solo e sta male. Dalle foto si vede
chiaramente che è molto dimagrito, con un avvallamento dietro alla testa,
simile a quello che avevamo notato in una delle femmine quando gli animali si
trovavano ancora nelle nostre acque.
Mi ero
confrontata con i colleghi islandesi e ci eravamo trovati d’accordo: le orche
stavano morendo di fame, e una conferma era che il cadavere esaminato dai
biologi libanesi aveva lo stomaco vuoto.
Riptide si
rifarà vivo ancora una volta al largo di Haifa, in Israele, sempre vicino a
costa, sempre emaciato…